Le esperienze depressive

secondo la psicoterapia della gestalt

 

 

“La depressione si presenta come la reazione corporea-relazionale del soggetto (del bambino) nel momento in cui si interrompe una danza a due prima ancora che si compia il contatto atteso con l’Altro. Prima di raggiungere la meta di una maggiore vicinanza con l’Altro (motivo per cui si è intrapreso il cammino), il soggetto si accorge che non c’è più. La scomparsa del’Altro, per lui improvvisa e inspiegabile, provoca un collasso nella relazionalità e nella sua corporeità: l’energia non sostenuta dalla presenza (relazionale!) della figura genitoriale si spegne, lascia il corpo e perde l’interesse per qualsiasi cosa”.[1]

 


La patologia depressiva attualmente sembra essere una tra le più diffuse nel mondo; le ultime ricerche epidemiologiche dell’OMS affermano che la depressione si trova al quarto posto tra tutte le patologie nel mondo (e non solo psichiatriche) e che questo indice sta crescendo così rapidamente che si ipotizza che nel 2020 giungerà al secondo, coinvolgendo milioni di persone con dei costi altissimi per la società.

Ci sono però alcune ambiguità di fondo, sia in ambito epidemiologico che diagnostico relative alle esperienze depressive, che devono essere chiarite. Ad esempio, il DSM-IV-TR pur essendo uno strumento utile per l’individuazione e la definizione di una diagnosi, si è purtroppo rivelato insufficiente sia dal punto di vista clinico che diagnostico poiché si avvale di criteri iperinclusivi.

Una recente ricerca svolta negli U.S.A. circa l’epidemiologia della depressione e rivolta ad un campione di individui maschi di circa trenta anni, ha rivelato che secondo i criteri diagnostici descritti nel DSM circa il 50% poteva rientrare in una diagnosi di depressione maggiore.

Questo risultato, così sorprendente, e la sua successiva (discutibile) interpretazione invece di porre l’accento su una possibile rivisitazione dei criteri iperinclusivi appena menzionati, sono serviti da impulso per la promozione di una nuova campagna d’informazione e di sensibilizzazione per i medici di base circa la trascrizione di psicofarmaci antidepressivi.

Questo è certamente un altro aspetto poco chiaro, ovvero il legame che purtroppo esiste tra l’epidemiologia della psicopatologia e quello della pressione economica relativa alla produzione e al consumo di farmaci. Per chiarire maggiormente quest’ultimo aspetto, basterà ricordare che fino ad un paio di decenni fa in Giappone la categoria diagnostica che descrive la depressione (come categoria esperienziale), non esisteva e, quindi, le case farmaceutiche non potevano vendere i loro farmaci. Si è instituita quindi una complessa campagna di ricerca su tutto il territorio giapponese per rivelare o meno l’esistenza di questa categoria psicopatologica. I risultati di tali ricerche hanno infine evidenziato che anche i giapponesi soffrono di depressione e che si potevano somministrare antidepressivi.

Un altro aspetto da chiarire è quello che riguarda gli studi compiuti in campo neurologico e sui neurotrasmettitori come possibili cause della depressione. A partire dagli ‘80, progressivamente si è assistito alla creazione della mitologia legata alla serotonina. Le ricerche affermavano, infatti, che alla base dell’insorgere della depressione ci fosse un deficit di questo neurotrasmettitore e che somministrandolo si sarebbe curata la depressione. Questo mito esiste ancora oggi anche se lentamente va scemando tale convinzione, mentre si è finalmente compreso che l’eziologia della depressione e la sua patogenesi non vanno confuse tra loro se si vuole intervenire in modo efficace.

E’ indubbio che l’utilizzo degli antidepressivi riduce gli effetti della depressione, ma affermare che la causa dell’esperienza depressiva sia ricondotta ad una carenza di neurotrasmettitori significa, con un salto logico ingiustificato, confondere i due livelli di ricerca sopra descritti. Alla luce di quanto appena detto, possiamo intuire quanto sia complesso parlare di esperienza depressiva senza tenere conto questo sfondo costituito dall’eziologia, dalla patogenesi e dall’epidemiologia.

Ma quali forme possono avere le esperienze depressive? Nello schema di seguito riportato, si è cercato di tracciare una sintetica nomenclatura per chiarificare maggiormente le varie nuances depressive seguendo le indicazioni e le descrizioni del DSM-IV.

 

Depressione maggiore

Certa intensità

Andamento episodico

Melanconia

Disturbi bipolari

Piuttosto intensi ed episodici

Distimia

Minore intensità

Durata più continua nel tempo

Almeno due anni

Ciclotimia

Oscillazione dell’umore

Meno intensità

Più continuativo e costante per almeno due anni


Questo modello prescinde da qualsiasi considerazione patogenetica ed è di tipo trans-nosografica ovvero riassume le precedenti ricerche riconducendole a questo schema definito negli anni ‘80, e si sintonizzano perfettamente con la somministrazione degli antidepressivi di ultima generazione, incrementando il loro consumo, negli ultimi anni, dell’800%.

La distinzione che, come psicoterapeuti, dobbiamo tenere maggiormente presente per comprendere le varie forme di depressione e quella tra depressione reattiva e quella endogena (melanconica o psicotica).

Esistono anche esperienze depressive presenti nei disturbi di personalità di tipo borderline, narcisista o dipendente e quelle legati a cause organiche, ma in queste due giornate di studio Gianni Francesetti si è occupato delle prime due appena citate.

 


La depressione reattiva


 

 

La depressione reattiva è una reazione a qualche avvenimento ben identificato nella vita del paziente come ad esempio la scomparsa di una persona cara, una separazione, la perdita del lavoro o anche il passaggio di alcune fasi evolutive. “Si tratta di una situazione che segue alla perdita di una persona amata in cui l’irraggiungibilità dell’altro è evidente alla consapevolezza.” (Francesetti, 2011).

Eppure, quando ci troviamo a contatto con questo tipo di esperienza intuiamo che essa non è effettivamente l’esperienza depressiva vera e propria ovvero quella che utilizza un tipo di linguaggio, verbale o corporeo che sia, completamente diverso, come quella endogena, ma un’esperienza, come dicevamo prima, originata da una causa ben determinata, chiara sia al paziente che al terapeuta.

Tra i vissuti esperiti in questo tipo di depressione ci sono la tristezza, il senso di vuoto, la rabbia, l’apatia, l’ingiustizia, il ritiro affettivo e al contatto con la vita, un senso d’impotenza ed i ritmi fisiologici appaiono alterati.

Come abbiamo detto, la depressione reattiva non è una vera e propria depressione, ma è una esperienza in cui accade un lavoro e cioè quello del lutto, in cui il trascorrere del tempo, come vedremo in seguito, per la persona che lo deve elaborare assume un carattere fondante.

La visione appena descritta, la dobbiamo senza dubbio a Sigmund Freud che nel 1915 scrisse un breve saggio intitolato “Lutto e melanconia” contenuto in una delle sue opere più ambiziose Metapsicologia, in cui viene descritto il lavoro del lutto.

“In cosa consiste il lavoro del lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia ad esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. […] Tuttavia questo compito non può essere realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo ed energia d’investimento.” (Freud, La teoria psicanalitica, p. 193).

In questa descrizione, il lutto è dunque concepito come il tempo che serve alla persona affinché il principio di realtà vinca sul principio di piacere, e cioè il tempo necessario per ritirare l’investimento libidico oggettuale; come si può facilmente intuire, l’elaborazione del lutto freudiano, un po’ meccanicista, certamente individualista e forse un po’ depressiva, non tiene sufficientemente conto del campo relazionale, al valore della relazione con l’altro.

Ma cosa aggiunge la visione gestaltica a quella teorizzata da Freud?

Nell’ottica gestaltica il lutto è la fase che succede ad una perdita e quindi possiamo paragonarla alla fase del post-contatto (inserita nel ciclo di relazione ndr) ovvero dell’assimilazione; ad esempio, quando finirà questo seminario, siamo consapevoli che qualcosa ci accadrà (interiormente ndr), e anche quando saremo altrove, questa esperienza, cognitivamente, resterà nostra poiché l’abbiamo assimilata. In una visione relazionale, il lavoro del lutto è quindi inscritto nello stadio dell’assimilazione non solo nell’evento di perdita, ma dell’esperienza relazionale vissuta con chi non c’è più.

Ma assimilazione di cosa?

Ciò che assimiliamo nel lutto è in che modo l’esperienza con la persona che se n’è andata ci ha trasformato. E’ il tempo dell’assimilazione di quello che è stata la relazione con quella persona, il tempo dell’assimilazione di quella esperienza e, come si può facilmente intuire, in questa prospettiva più che il disinvestimento o il ritiro della libido, ciò che va in figura e la trasformazione che relazione con l’altro determina su noi stessi.

Come afferma Piero Cavaleri, nelle relazioni si generano beni relazionali che rappresentano il nutrimento profondo per la persona e nel momento in cui si esperisce una perdita, il compito del lutto è quello di assimilare quei beni relazionali vissuti e condivisi con la persona che è scomparsa.

Molto spesso, appena dopo aver subito la perdita di un affetto importante, si avverte quella sensazione di “assenza più acuta presenza” così particolare che forse ognuno di noi ha provato; in quei momenti, nonostante la persona cara se ne sia andata, paradossalmente sembra che sia ancora più presente e, forse, come mai prima di quel momento. Il lavoro del lutto è quello di rielaborare tutto ciò che è accaduto per assimilarlo e, quindi, per trasformarci nel profondo, di sentire e comprendere ciò che è stato per renderlo in un modo nuovo, e facendolo divenire parte di noi.

Il tempo del lutto è l’elaborazione di due fedeltà: la fedeltà alla persona che abbiamo perduto, trasformando noi stessi attraverso il ricordo dell’esperienze vissute allora, con la testimonianza e la narrazione di ora, e la fedeltà alla vita, in cui i giorni tornano, altri contatti ci chiamano e la vita stessa torna ad esse vita.

Le due fedeltà devono essere co-presenti affinché questo processo possa svolgersi, e la loro armoniosa integrazione completi il lavoro del lutto.

Non rispettando la prima fedeltà c’è il rischio di divenire dei consumisti della relazione e nel contesto sociale attuale, in cui c’è poco sostegno al lutto, dare il tempo necessario alla persona per assimilare ed interiorizzare le esperienze passate, diviene un punto irrinunciabile.

Spesso assistiamo invece ad una spinta alla fedeltà alla vita, come quando chi ci circonda ci invita a reagire, ripetendoci che i giorni dedicati al ricordo e al dolore possono bastare, assottigliando il tempo necessario a quello che rappresenta la fedeltà alla persona scomparsa, togliendo spazio al racconto e ai beni relazionali legati a quell’esperienza.

Questo sostegno così presente in tante culture, nella nostra è invece lascito sullo sfondo, in cui il tempo per la condivisione della memoria è sacrificato in nome dell’efficienza e della performans.

L’elaborazione del lutto è quindi un processo relazionale e non individuale, in quanto si avverte l’urgenza dell’altro per raccontare i nostri legami passati, affinché ciò che è stato creato (co-creato ndr) non vada perduto e, con quella consegna, sentire che l’altro sia toccato dal nostro racconto e affinché anche questa esperienza divenga un ulteriore bene relazionale.

L’esempio che seguirà, un evento molto toccante, potrà farci comprendere cosa significa narrare le nostre esperienze, consegnandole all’altro affinché sia un testimone di una parte della nostra storia di vita.

Tempo fa, una collega del Dott. Francesetti, che svolge il suo lavoro a Torino, portò questa storia in supervisione:

era stata chiamata dal carcere di Torino (in quel periodo l’incidenza di suicidi era enormemente aumentata) per svolgere un colloquio con un carcerato che appariva depresso, ritirato in stesso, non parlava più con gli altri detenuti e aveva con lei un linguaggio mono sillabico e, apparentemente, non c’era niente che si potesse fare. La sua preoccupazione era che potesse suicidarsi realmente.

In supervisone emerse che non si sapeva praticamente nulla della storia personale di quest’uomo. Cosa faceva prima di entrare in prigione? Come mai era in prigione?

L’idea fu proprio quella di esplorare quest’area che fino a quel momento era rimasta nell’ombra. La curiosità di sapere chi fosse prima del carcere, l’uomo perduto, lentamente dischiuse un nuovo spazio, facendo sì che quel l’uomo potesse consegnare il se stesso perduto fino a quel momento, raccontandosi.

Ciò è accade perché esiste una spinta (la fedeltà alla persona scomparsa) a rimanere con ciò che è perduto, fino a quando il ricordo non viene consegnato a un testimone, e il romanzo di quell’esistenza non viene sfogliato insieme ad un altro (ndr).

Il termine consegnare significa appunto segnare qualcosa insieme e questo atto ciò che è perduto a qualcuno vuole dire non perderlo realmente e contemporaneamente riascoltare la spinta intensa alla vita.

Lo stesso Sigmund Freud, scrivendo al suo amico Ludwig Binswanger, accomunati dal dolore della morte di un figlio, descrive così cos’è per lui l’esperienza del lutto:

 “Tutto ciò che può subentrare anche se riempisse il posto è rimasto vuoto resta qualcosa di diverso e al dire il vero è giusto che sia cosi perché e l’unico modo per proseguire l’amore da cui non si vuol desistere”. Il posto rimasto vuoto è per sempre e il ruolo del lutto è quello di trasformare quel vuoto che comunque non può essere riempito.

Ci sono altri aspetti legati al lutto: quando esperiamo una perdita o una separazione, in quel momento, risuonano tutti i campi depressivi passati.

Infatti, quando si lavora con dei lutti antichi, si possono ritrovare dei grumi di remote fedeltà, come i sintomi fisici legati alla persona scomparsa, gesti mancati, intolleranze alimentari appartenenti al capo del lutto e, quell’elaborazione, diviene più complessa se la relazione legata a quella persona è stata complessa .

Nella descrizione di un caso clinico, seguito dal Dott. Francesetti, questo tema si presenta in tutta la sua drammaticità: una ragazza di circa trent’anni, con un padre abusante, e che non aveva più rivisto dopo la separazione dalla madre, era venuta a conoscenza della morte del padre e ne era stata felice. Durante la seduta, emerse la sua difficoltà a relazionarsi con i ragazzi e lavorando su un suo aspetto depressivo, quando le chiesi di fare un gesto verso di me, che certamente era riservato al padre, si bloccò; subito dopo, provando un dolore molto acuto, si abbandonò a quel gesto e nella sofferenza di quell’atto, che rappresentava la separazione dal padre, si concluse l’attesa che ancora c’era per lui. Nell’esplorazione del campo del lutto si trovano, perciò, grumi di antiche fedeltà con cui si costruiscono le nostre modalità di come entrare o non entrare in relazione con il mondo.

Per comprendere meglio il significato di queste due fedeltà il dott. Francesetti propone un’esperienza da svolgere prima individualmente e poi in piccoli gruppi.

Pensare a una persona scomparsa e di scrive una lettera focalizzando due aspetti: cosa è cambiato nella vostra vita da quando non c’è più quella persona e cosa è vivo di lei nella vostra vita.

Il lavoro del lutto non si compie una volta sola, esso non si esaurisce, ma viene elaborato ogni qualvolta le diverse esperienze evolutive come ad esempio, alcuni passaggi critici si affacciano alla nostra esistenza. Tra questi, ad esempio, quando si diviene genitori o si raggiungere l’età del genitore scomparso; sopravvivere all’età del genitore richiede una nuova elaborazione, in cui sono presenti sia il senso di colpa di essere sopravvissuti, che la paura di andare oltre un modello dato, dei paradigmi noti, che richiedono un’ulteriore trasformazione di ciò che sentiamo e di ciò che siamo.

Ogni volta che passiamo attraverso questi passaggi evolutivi, che esperiamo la criticità di questi periodi esistenziali, riviviamo le due fedeltà, quella alla memoria di ciò che è stato e quella alla vita che verrà.

 


L’esperienza depressiva melanconica

 

“Oggi mi sono svegliato molto presto con uno scatto intricato, e mi sono alzato subito dal letto in preda al soffocamento di un tedio incomprensibile che non era stato provocato da alcun sogno; e che nessuna realtà poteva avere provocato. Nel fondo oscuro della mia anima, invisibili, si combattevano forze sconosciute, e il mio essere era il terreno di battaglia e io tremavo per lo scontro ignoto. Una nausea fisica della vita intera si è verificata al mio risveglio. Un orrore per il dover vivere si è alzato dal letto insieme a me. Tutto mi è sembrato vuoto e ho avuto la fredda impressione che non esiste soluzione per nessun problema.”

(Pessoa F. “Il libro dell’inquietudine”)

 

 La fenomenologia dell’esperienza depressiva melanconica ci dice che quello che drammaticamente sta accadendo, è determinato da cause sconosciute e da fattori ignoti. Non si sa perché accade e il suo succedersi può avvenire rapidamente o, scivolando pian piano, trasformare il normale sentire in un’esperienza in cui non c’è più energia, il desiderio diminuisce progressivamente e la perdita del senso contagia ogni angolo dell’esistenza: tutto senza un apparente ragione. E’ qualcosa che emerge, ma distaccato dalla vita, scollato da essa. Anche l’aspetto qualitativo legato a questa tragica esperienza, rispetto alla depressione reattiva, è diverso; in essa i toni del sentire e del provare hanno caratteristiche inconfondibili, il loro linguaggio è differente. Sappiamo che il rischio di suicido nei pazienti che soffrono di questa patologia è alto, e la loro incidenza è addirittura maggiore rispetto alle morti per gli incidenti stradali, e rappresentano la prima causa di cambiamento di lavoro per uno psicoterapeuta. Uno degli aspetti principali da considerare, rispetto a questa patologia, è la corporeità. Ci sono due aree che riguardano la fenomenologia della corporeità: la prima legata alla sua cura, la pulizia, la sua immagine e, in questo ambito, il corpo sembra che si spenga; la seconda è sentire il corpo come qualcosa d’indifferenziato, una massa vuota o pesante, un’entità de-energizzata, con un peso oppressivo toracico, alla testa o alle spalle che è l’espressione dell’angoscia depressiva, penosa e costante.

L’aspetto centrale è quindi la corporeità e non può esserci psicoterapia che non consideri o non passi attraverso il corpo.

L’alterazione dei ritmi sonno-veglia rappresentano un ulteriore aspetto, come quelli degli appetiti (l’anoressia o l’iperfagia), o il risveglio precoce, con il massimo dell’angoscia; in questo caso, l’andamento è peggiore al mattino e un po’ meglio al pomeriggio e alla sera, mentre l’appetito sessuale e la libido si azzerano.

Nei casi gravi, la corporeità può giungere allo stupor anche se ai nostri giorni è raro per le terapie farmacologiche che si rivelano molto efficaci.

La sindrome più descritta in questi contesti e quella di Jules Cotard in cui si arriva a negare di avere un corpo, in una esperienza terrificante, e il paziente in una logica delirante arriva ad affermare che se non ha un corpo non può essere vivo, e sa di non essere morto e che vivrà in questo stato per sempre.

La fenomenologia di questa esperienza è costituita da una assenza di una richiesta di attenzione poiché vi è il disinteresse a tutto; e questo avviene anche per le personalità di tipo isterico con esperienze depressive. La tristezza melanconica è certamente diversa da quella reattiva poiché è fatta di svuotamento, di mancanza di sentimenti e paradossalmente il paziente non prova nemmeno più sentimenti per questa mancanza. C’è il non senso dell’andare della vita che è fuori, e tra le immagini riportate dalle persone che soffrono di melanconia c’è quella di vivere osservando l’esistenza come da una finestra, ma senza provare nulla; il tempo e lo spazio sono alterati e questo lo si può esperire durante le sedute terapeutiche, in cui si percepisce intensamente la dilatazione dello spazio e l’immobilità del tempo. Contattare queste sensazioni può portare allo svuotamento e, successivamente, allo sganciamento dalla vita.

Negli anni sessanta e settanta ciò che emergeva maggiormente da questi vissuti era il senso di colpa in un contesto sociale in cui compiere il proprio dovere era rigidamente in figura, ed essere depressi rappresentava una mancanza verso gli altri; oggi, in una realtà narcisista in cui ogni individuo e slegato dal resto del tessuto sociale, tutto questo è sfumato, portando in primo piano il vissuto di non senso profondo dell’esistenza insieme ad un sentimento di insufficienza e inutilità.

Alla luce di quanto detto, la domanda che come psicoterapeuti possiamo e dobbiamo porci è: se questo è lo sfondo dell’esperienza depressiva ovvero il vissuto dell’individuo, allora qual è il campo relazionale che dà senso a questo vissuto?

Si potrebbe ipotizzare che se trovassimo lo sfondo relazionale che dà senso a questo vissuto individueremmo il percorso terapeutico da seguire.

Quando parliamo di depressione grave, intendiamo riferirci ad un fenomeno che, come già accennato precedentemente, non è riconducibile a cause ben precise, ma a fattori che di volta in volta, in situazione e da individuo ad individuo, andrebbero osservati e descritti.

Ma questo vissuto individuale da cosa prende forma?

Che tipo di sfondo si trova lavorando con un paziente melanconico?

“Come abbiamo visto, l’elemento centrale che si incontra entrando in un campo depressivo è il fatto che non emerge alcuna intenzionalità di contatto e nessuna figura prende forma. Il fatto che questo fenomeno si accompagni a un disagio profondo dimostra in realtà che l’intenzionalità è presente: è presente attraverso la percezione dolorosa della sua assenza.” (Francesetti, 2011).

Per addentrarci in questo percorso che può sembrare un dedalo, si possono seguire più vie; quella dell’esperienza clinica nella prospettiva descritta dalla psicoterapia della gestalt in cui l’esperienza depressiva inscritta in una cornice relazionale;dall’osservazione fenomenologica di questo disagio e dalle acquisizioni provenienti dall’enfant research.

“Da quest’area di ricerca sta emergendo in modo sempre più chiaro e consolidato che gli stati affettivi e l’umore non sono variabili individuali, ma il risultato di un processo di co-creazione diadico o triadico.”

Nel modello sperimentale della still face ideato da Tronik (il quale nel novembre dello scorso anno è venuto a Roma), si osservano le reazioni dei bambini quando le loro madri non rispondono minimamente ad ogni loro segnali. I loro comportamenti sono molto forti. Dopo aver scrutato il fallimento del loro richiamo alla madre, i bambini si discostano dalla madre per poi voltarsi ancora verso di lei nel tentativo di ottenere qualche risposta. Quando queste nuove manovre falliscono, il bambino tende a perdere il controllo posturale e cade in una profonda tristezza.(Tronik, 2008, p.223).

Si può quindi ipotizzare che bambini con madri poco responsive, che sperimentano il fallimento di raggiungere l’altro, sviluppano un precoce disinvestimento del mondo.

Come sappiamo, l’area di maturazione del sé narrativo, e cioè la capacità di raccontare la propria esperienza, di avere una rappresentazione narrativa della propria vita, avviene intorno ai tre anni di vita

Dopo i tre anni il lutto è elaborabile, mentre prima di quel momento non c’è ancora un Sé maturo per comprendere tali eventi.

Queste esperienze possono produrre un campo depressivo tale, da instaurare una vulnerabilità ad una futura depressione grave.

Tanto più è forte questa esperienza, tanto più il campo depressivo può divenire magneticamente potente, soprattutto se la persona non è sostenuta. A riguardo, si ricorderà il tipo di depressione osservata e descritta da Renè Spitz[3] che dimostra come la maturazione del bambino richiede una relazione, uno scambio comunicativo necessario per lo sviluppo della sua identità.

C’è poi un ulteriore aspetto da considerare: come sappiamo, secondo la psicoterapia della Gestalt, le funzioni del Sé sono tre: la funzione Es, la funzione Io e quella Personalità.

La funzione Es è ciò che direttamente ci connette al sentire, cioè ai nostri sensi; essi costituiscono il luogo dove l’organismo e l’ambiente sono indifferenziati e, fenomenologicamente parlando, rappresentano quel tratto in cui l’uomo e il mondo non sono disgiunti.

Nella depressione melanconica questa funzione, attraverso cui siamo a contatto con l’ambiente, attimo per attimo, è gravemente disturbata e la percezione che emerge è invece quella di sentirsi staccati dal mondo e dal suo fluire.

Questo sentimento è così doloroso perché nasce da una mancanza di inter-esse da parte della persona depressa per ciò che lo circonda.

L’etimologia del termine interesse (essere tra), ci fa comprendere ancora di più come questa patologia sia, per così dire, esistenziale; essa è un’incapacità della persona ad essere nel contatto, ad essere con il mondo, ad essere in relazione.

Ciò che nella depressione grave si soffre maggiormente, è la perdita di “aggancio” a tutto ciò che la vita e l’ambiente rappresentano. Anche la funzione personalità è alterata: le alterazioni vanno dal non sentirsi all’altezza dei propri ruoli fino alla grave perdita della realtà. In questo quadro anche la funzione Io può essere fortemente compromessa, in quanto non c’è la possibilità di identificarsi o differenziarsi e quindi di scegliere.

Ma come si può svolgere un lavoro terapeutico con una persona che soffre di depressione melanconica?

Come accennato precedentemente, il lavoro con la funzione Es del Sé è centrale nel nostro approccio, in cui la relazione è inserita in un ambito più ampio e che si può aprire spontaneamente nel corso della terapia.

Questo lavoro spesso è molto difficile perché può vivere di momenti critici, soprattutto quando il paziente è nella sua fase più acuta (psicotica) e non riesce a sentire il terapeuta.

In questa condizione, l’unica possibilità è che si sia sviluppata, nel tempo, una relazione così profonda che anche un frammento di sensazione possa riemergere durante queste fasi.

Il terapeuta deve avere la sensibilità di rimanere in una attesa consapevole, fatta di rifiuti, di fatica (a rimanere sveglio), nella frustrazione e con la paura di non poter raggiungere il paziente e di rifiutarlo.

Ma questa attesa, che a volte sembra nutrirsi di nulla[4], e che quindi può apparire inutile, solitamente si rivela invece come un sostegno grandissimo per il paziente che esprimerà, successivamente, la sua gratitudine per la capacità e la volontà del terapeuta di aver oltrepassato quello spazio (dilatato) e quel tempo (cristallizzato), rimanendo lì, accanto a lui.

In questo frangente, il terapeuta offre la propria funzione Io al campo depressivo per operare delle scelte altrimenti non attuabili; rappresentando, transitoriamente, un Io vicario per il paziente.



[1] Francesetti G., Gecele M. (2011), L’altro irraggiungibile. La psicoterapia della Gestalt con le esperienze depressive, a cura di, FrancoAngeli, Milano, pag. 54.

 


[2] “Dovrò cambiare di posto la vita che ancora adesso è il tuo specchio; dovrò ricostruirla ad ogni mattina. Da quando te ne sei andata via, quanti luoghi sono diventati vani e senza senso, come luci accese di giorno. Sere che erano cornici del tuo volto, musiche in cui mi attendevi, parole di quel tempo, dovrò distruggerle con le mie mani. In quale profondità celerò la mia anima, affinché non veda la tua assenza che come un sole terribile, senza occaso, brilla in eterno e spietata? La tua assenza mi circonda, come la corda alla gola, il mare per chi sta affogando.”


[3] Questi stimoli, al pari della necessità del cibo, sono essenziali per uno sviluppo sano. Numerose sono le ricerche che hanno esaminato come la deprivazione sensoriale, sia nei bambini che negli adulti, provoca danni anche irreparabili. Renè Spitz , psicoanalista di origine austriaca, dimostrava per primo che i neonati, se privati a lungo di stimolazioni fisiche, possono sviluppare forme psicopatologiche che, in casi estremi, arrivano fino alla morte. L’autore osservava che bambini, ospedalizzati oppure orfani, anche se ben nutriti, tenuti al caldo e puliti, sviluppavano problemi fisici ed emotivi in misura significativamente più alta del gruppo di controllo composto da bambini allevati dalle loro madri o da altri che si prendessero cura di loro con sollecitazioni tattili e sensoriali. I bambini del primo gruppo spesso venivano lasciati soli e soffrivano della mancanza delle carezze, del contatto fisico e delle coccole che normalmente i neonati ricevono dalle loro madri. I disturbi evolutivi, che avevano origine da una tale deprivazione, potevano spingersi fino ad una forma di patologia che Spitz denominava depressione anaclitica (sindrome dell’abbandono), per la quale il bambino poteva lasciarsi andare e deperire finanche alla morte.


[4] In fisica quantistica, esiste una relazione che consente temporanee violazioni del principio di conservazione dell'energia, dimostrando che è possibile prendere in prestito una certa quantità di energia dal "nulla", purché questa venga prontamente "restituita". Ciò viene normalmente verificato, nell'ambito dell'elettrodinamica quantistica, con l'apparizione (dal "nulla") delle particelle virtuali. Al pari dell'elettrodinamica quantistica quindi, ove per tempi che si aggirano intorno al miliardesimo di trilionesimo di secondo, un elettrone e il suo opposto di antimateria – il positrone – possono emergere improvvisamente dal nulla congiungersi e quindi svanire, nell'effetto tunnel, per tempi che si aggirano intorno al milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo, una "particella alfa" può prendere in prestito dal "nulla" sufficiente energia cinetica così da superare la barriera di potenziale che la tiene unita al nucleo. Tutti questi fenomeni sono possibili poiché la relazione ΔtΔE h indica che è possibile ottenere dal "nulla" energia.